Sabato scorso sono tornato per un’escursione tra Campeda e il castello della Sambuca. Cercavo i colori dell’autunno e ho scattato qualche foto che, sperando di fare cosa gradita, oggi condivido su questo gruppo. Non rappresentano i “luoghi significativi” della Sambuca ma vorrebbero provare a comunicare i colori che, ad autunno inoltrato, si possono trovare su questa bellissima montagna.
Nel ventre del monte vuoto
Avevo già visto parecchie grotte carsiche e pensavo di capirci qualche cosa ma, prima di venire qui in Garfagnana, in realtà non sapevo niente di Speleologia. Non sarà maestoso come le Grotte di Frasassi ma l’Antro del Corchia è comunque uno spettacolo unico, assolutamente da vedere. Ma d’altra parte ogni grotta è unica nel suo genere. La montagna vuota, così viene definito il Corchia, ha nella sua pancia oltre 100 Km di gallerie di cui solo 70 km già esplorati e solo 2 percorsi da Andrea Piazza (al seguito della guida).
Qui a Levigliani sono organizzatissimi: un doppio bus navetta (per le grotte e la miniera di mercurio) e tutto quello che serve a noleggio (ti affittano anche la felpa se arrivi in grotta a maniche corte). “Sembra di essere in Germania” ha commentato un visitatore che era nel mio gruppo.
Ma quello che non dimenticherò mai è la salita alle grotte con la navetta. Lasci l’auto a Levigliani e prendi il bus che si arrampica su una salita dalla pendenza improponibile. E già ti chiedi “chi me l’ha fatto fare?”. Poi sale per una strada mono-corsia con strapiombi mozzafiato. E su certi tornanti deve pure fare manovra. Che ad un certo punto ti trovi con la roccia davanti al muso del bus e il vuoto dietro alle gomme posteriori. Tra i passeggeri cala un silenzio agghiacciante.
In discesa c’è al volante un autista donna. Fa manovra su un tornante e dietro di lei ci siamo noi, 50 persone mute, col fiato sospeso. E nel silenzio generale (io userò la H al posto della C per un suono toscano) l’autista esclama : “Senti hhe silenzio! Pare hhe sono sola!”🤣🤣🤣
In coda alle foto della Grotta metto anche le immagini della miniera dove, dal medioevo fino agli anni ’70, si estraeva il Mercurio. Piccola nota da turista saccente: il Mercurio solitamente, anche qui a Levigliani, viene estratto dal Cinabro (solfuro di Mercurio) un minerale di colore rosso. Esistono però 4 miniere in tutto il mondo dove il Mercurio affiora direttamente (non in forma di solfuro) dalla roccia. La miniera di Levigliani è una di quelle 4. E’ un fenomeno rarissimo che, da un punto di vista industriale, non ha nessun valore. Ma vedere le gocce di Mercurio che affiorano dalla roccia è uno spettacolo che desta stupore.
Un borgo fantasma nel bosco incantato
Attraversata la diga di Isola Santa si imbocca il sentiero che porta al borgo fantasma di Col di Favilla. E’ un piccolo nucleo di case, parte del Comune di Stazzema, che erano nate, nel XVII secolo, come alpeggio. Nel corso del tempo il borgo si è sviluppato raggiungendo, alla fine del ‘800, una popolazione stabile. Pesantemente danneggiato durante la guerra di Liberazione è stato definitivamente abbandonato negli anni ’60.
L’escursione non è niente di eccezionale: molto tranquilla, direi per tutti. Un dislivello di poche centinaia di metri, il sentiero ben segnato, pendenze non esagerate… eppure c’è qualche cosa di diverso, di inquietante. Sarà il fatto di non incontrare altri mammiferi, se non un piccolo scoiattolo. Sarà forse la suggestione ispirata dalla salita verso un “borgo fantasma”, oppure sarà il fatto che Andrea Piazza non doveva guardare tutte le puntate di “Stranger Things” prima di partire😳. Sta di fatto che questo bosco ha qualche cosa di “stregato”.
Giro una curva e mi trovo di fronte un tronco in cui è facile individuare la sagoma di un volto umano, quasi come fosse un demone che controlla la salita. Giro attorno al tronco e lo scopro cavo, tanto che pare di poterlo abbattere con una mano. Ecco, era solo un “demone fragile”. E mi vien da pensare che, molto spesso, anche i nostri “demoni” sono solo paure fragili, basterebbe girarci intorno per scoprire che sono come tronchi vuoti. Ma quello che manca, molto spesso, è proprio il coraggio di affrontarli i nostri demoni. (questa era da manuale “Psicoterapia for Dummies”, voglio il copyright)
Intanto procedo e mi trovo di fronte una “farfalla” che mi sbarra la strada. La guardo attentanemente, non è una farfalla. Si alza si abbassa, vola, poi si ferma quindi riparte ma non è una farfalla bensì una foglia. L’ho pure filmata ma mica ho capito il trucco, forse una lunghissima ragnatela che la teneva in sospeso, ma io mica l’ho trovata la ragnatela. Faccio spallucce e passo oltre. Questo bosco resta inquietante.
Arrivo a Col di Favilla e inizio a fotografare gli antichi ruderi di quelle case diroccate. Ad un tratto un rumore, una voce… faccio un salto e mi viene la pelle d’oca. OK, sono solo due ragazzi, le prime persone che incontro oggi. Ma alla luce delle premesse lo spavento era comprensibile.
Continuo a fotografare quei ruderi. Si intravedono i resti di un camino, pavimenti e il cielo che fa da soffitto (quando si dice “Il cielo in una stanza”🤣). E mi viene da pensare ai piedi che, tra il XVII e il XX secolo, calpestarono quei pavimenti. Se le pietre di una casa hanno una memoria allora queste pietre trasmettono, in modo molto intenso, il ricordo di vite vissute in epoche lontane.
Più tardi proseguo fino alla Foce di Mosceta ed al rifugio Del Freo dove mangio una spettacolare zuppa di verdure. Qui nel bosco soffia una brezza strana, è un vento leggero ma continuo. Adesso, col senno di poi, mi sovviene quello che, due giorni dopo nel borgo di Frassignoni, il vecchio Argante chiamava “il respiro della montagna”. Strane coincidenze appenniniche, o forse gli echi di un unico esistere al quale apparteniamo tutti.
Proprio una bella escursione, alla portata di tutti. Magari però non per quelli dotati di un’immaginazione fervida come la mia.🤦♂️🤣🤣
Il respiro della montagna
Da dove cominciare? Ho un sacco di arretrati, di foto non pubblicate per via della scarsa connettività in Garfagnana. Ma voglio partire dalla fine, dal viaggio di ritorno e dalle sue incredibili sorprese.
Si perché arrivati ad un certo punto non sei più tu che cerchi la montagna ma è lei che, nei modi più imprevedibili, riesce sempre a trovarvi. Ieri mattina ho passato 3 ore nella Grotta del Vento sotto al Monte Pania. Uscito da lì non avevo proprio voglia di lasciare l’Appennino. Allora ho iniziato a vagabondare sulla strada del ritorno. Ho attraversato 3 province: Lucca, Pistoia e Bologna. Per poi finire, attirato da un vago presagio, nella valle dell’Alto Reno, che ormai è quasi una seconda casa. Questa piccola “odissea appenninica” mi ha portato casualmente a trovarmi, a Porretta Terme, sulle strisce pedonali proprio mentre Sante Ballerini è fermo allo stesso semaforo. Una coincidenza? Oppure è il “respiro della montagna” che mi ha attirato proprio lì in quel preciso momento?
Mi lascio “rapire” da lui e ci spostiamo nel piccolo borgo di Frassignoni dove, poco dopo, viene presentato un libro: “A veglia con Argante ovvero il respiro della Montagna”. E’ un volumetto che raccoglie le memorie di un anziano signore di Frassignoni (Ilario Biondi detto “Argante”) il quale, nel suo racconto, ci propone quell’anima contadina, fatta di sobrietà e sacrificio, che rappresenta lo spirito dell’Appennino. (Le ultime parole non sono mie ma tratte dal sociologo De Rita che, in un articolo sul Corriere, descrive l’Appennino come “la struttura portante senza la quale il sistema [Italia] si scioglie verso il mare”. Bellissimo articolo di cui propongo il link qui in fondo)
Le memorie di Argante, raccontate da Daniela Banchini, non sono solamente la storia di un piccolo borgo, di nome Frassignoni, del quale forse, nel resto di questa Italia, non interesserà mai nulla a nessuno. Il suo è piuttosto il racconto di una civiltà contadina fatta di solidarietà, sacrificio e dignitosa povertà. Quante Frassignoni e quanti Argante ci saranno in giro per l’Appennino e per l’Italia?
Un mondo smarrito che però, ancora oggi, ha molto da insegnarci anche, e forse soprattutto, nel nostro rapporto con l’ambiente. Per questo propongo le ultime righe di questo bellissimo volume:
“A Frassignoni il mondo non è più quello di quando ero bambino, quello che vi ho raccontato in queste pagine; ma il fascino della montagna resta. La montagna ha un suo respiro, che si sente nel bosco e nei borghi quando ci si allontana dai paesi del fondovalle e dal traffico. E’ un respiro profondo, che non tutti riescono a sentire, ma che, se inizi a percepirlo, ti attrae: ti fa capire che non sei solo, che c’è una vita più vasta, in cui uomini, alberi, animali, acqua, vento, sole, terra, pur stando ognuno al suo posto, partecipano tutti ad un unico, grande, grandissimo respiro; un respiro che forse di avverte alche in altri luoghi della terra, ma che io sento sulla mia montagna.”
Questo Argante potrebbe essere il nonno di Greta Thunberg, non vi pare?
Ed ecco l’articolo di Giuseppe De Rita
P.S. le immagini sono mie foto di repertorio scattate tra Campeda e la strada verso Sambuca, così giusto per essere precisi.
L’isola che non c’è
L’antico borgo di Isola Santa è proprio, come nelle parole di Edoardo Bennato, l’isola che non c’è. Ovvero non è un’isola, almeno come la intendiamo solitamente. E’ piuttosto un’isola del tempo, un borgo che ha attraversato i secoli per portare a noi il fascino di epoche così lontane.
Modernità e tradizione qui si incontrano o meglio si scontrano. La tradizione è in quelle pietre, in quegli edifici che hanno solcato un millennio di storia. La modernità è quella del bacino artificiale, la diga che, nel lontano 1949, ha spazzato via quasi tutto il borgo medievale. Oggi è difficile accettarlo ma allora c’era una nazione da ricostruire, una “rivoluzione industriale” da cominciare, un boom economico da innescare.
Eppure il lago artificiale, a modo suo, qui riesce a ingentilire ancor di più quel che resta dell’antico borgo.
In fin dei conti in Italia tutto sta in bilico fra tradizione e modernità. Il segreto è trovare il giusto equilibrio.
Pure Andrea Piazza è un paradosso di tradizione e modernità: mi rendo conto di essere l’ultimo Sapiens che, in questa epoca di Smartphone tuttofare, gira ancora con una reflex appesa al collo. A volte mi sento così vetusto, direi quasi “un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”.
E niente, la citazione di Bertoli ci sta sempre bene… a muso duro!
La magia dei boschi della Sambuca
“Io fu’ ‘n su l’alto e ‘n sul beato monte,
ch’i’ adorai baciando ‘l santo sasso…”
Oggi, per usare le parole di Cino da Pistoia, ero ancora sul “beato monte” dove visse e morì colei che, sempre nelle parole del poeta stilnovista, aveva i “più begli occhi che lucesser mai”, ovvero Selvaggia dei Vergiolesi.
E qui finalmente ho capito chi è Andrea Piazza: è la reincarnazione di un poeta dello Stil Novo che è costretto a vivere in questa epoca scevra di sentimenti e di passioni… e niente, mi sa che ho sbagliato millennio 🙂
La V ed. di “Genti e Borghi della Sambuca” è stata ampiamente penalizzata dal meteo ma un manipolo di coraggiosi, tra i quali il sottoscritto, ha sfidato le “avverse nubi” per attraversare la via Francesca da Pavana fino al Castello di Sambuca. E’ veramente emozionante camminare su quelle strade, ancora ampiamente lastricate come in origine, sulle quali posarono camminarono i pellegrini di mille anni fa.
Chiariamo subito una cosa: non ho incontrato, come era invece capitato sabato scorso, Francesco Guccini. Però nei boschi di Pavana abbiamo incrociato un branco di cinghiali. Probabilmente, a giudicare dalla dimensione, una nidiata al seguito della mamma. Si fanno sempre incontri “eccitanti” nei boschi della Sambuca.
Chi mi conosce sa quanto sia forte la mia passione per questi monti. Però ieri è stato diverso, imprevedibile. E’ come se queste montagne avessero sempre qualche sorpresa in serbo. Il timore per il maltempo e la paura per i temporali si sono trasformati, molto presto, in sorpresa e stupore.
Sono sempre gli stessi boschi, già attraversati diverse volte, ma oggi, nella leggera foschia di un temporale accennato, quei boschi hanno assunto l’aura incantata di un ambiente fiabesco. I boschi della Sambuca riescono ogni volta a rinnovare la loro magia.
E per finire mi sono lasciato sedurre anche a tavola provando, per la prima volta, i Necci alla ricotta… un Amore al primo assaggio. E riprodurli qui in pianura sarà la prossima sfida per il qui presente #PasticciereTrotzkista
Profondità appenninica
Oggi (30 giugno), per l’ennesima volta, è saltata un’escursione pianificata da tempo. Volevo ripiegare sempre sulle Dolomiti ma poi ho pensato “Troppo casino! Troppi mammiferi della mia specie”. E quindi, alla fine, il cuore mi ha riportato qui sull’appennino.
Mi sono trovato di fronte a questo ponte medievale. A prima vista solo un mucchio di vecchie pietre, ma è un mucchio di pietre che ha attraversato la profondità dei secoli. E’, a suo modo, un “ponte del tempo”. Un angolo di Toscana che magari potrebbe anche sfuggire allo sguardo superficiale del turista distratto. E allora mi sono seduto e ho iniziato a riflettere, la montagna serve anche a questo.
Viviamo in una società piena zeppa di superficialità dove è stata messa al bando la “profondità”. E anche questo canale (internet, social network…) dove sto scrivendo è solamente, in buona sostanza, un “megafono di superficialità”. Forse sarà perché la superficialità si vende bene? perchè è un bene di consumo di massa? Ma io mi sono fatto un’idea diversa.
Io penso che in ognuno di noi ci sia (o meglio ci potrebbe essere) qualcosa di molto profondo. Però la profondità spaventa. Ed è per questo motivo che, molto spesso, ci accontentiamo della superficialità senza scendere più giù. Affrontare la “profondità” è difficile perché significa affrontare te stesso. E una volta trovato “te stesso”, ammesso e non concesso di trovarlo, poi è un casino gestirlo. Perché “tu è” un guazzabuglio di emozioni e contraddizioni insanabili. Insomma un gran bel grattacapo. E poi, a volte, la profondità è chiusa in una confezione così ermetica che, per tirarla fuori, è necessaria una ferita profonda capace di lacerare quella confezione sigillata.
Inoltre la profondità di una persona è ingombrante, per sé e
per gli altri. Invece la superficialità è come un tavolo pieghevole da pic-nic:
la smonti e la porti dove vuoi. E’ quindi comprensibile che le persone, molto
spesso, rinuncino alla propria profondità per nascondersi sotto la superficie,
come in un gioco pirandelliano di maschere. E’ più facile e forse anche più
conveniente.
Ma a questo punto una domanda sorge spontanea: io che cazzo la pago a fare una psicoterapeuta se la “psico-analisi” mi viene così bene? In una vita precedente devo essere stato il fratello serio di Woody Allen.
Quattro passi nel letto del grande fiume
La siccità dei record, mai così poca pioggia negli ultimi 200 anni. Così è stata definita questa arsura che sembra non aver fine. Ma io volevo guardarla negli occhi e allora, sabato mattina, mi sono concesso una passeggiata nel letto del “grande fiume” (o sedicente tale).
Lo scenario è desolante. Un rigagnolo quasi stagnante ecco come si presenta quel fiume che, con la rete dei suoi affluenti, dovrebbe essere l’arteria vitale della pianura padana.
Quando, dopo tanto camminare, ti trovi di fronte ad un po’ di acqua la scena è quasi “moseitica” (lo so che il termine non esiste, ma suonava molto figo). Solo che Mosè, di fronte a Mar Rosso, dovette provare un senso di onnipotenza. Tu invece qui, di fronte a questo fiume “evaporato”, provi solo un senso di sconforto e inquietudine.
Quella che, in altri periodi dell’anno, viene chiamata “isola” adesso la raggiungi a piedi. Potrebbe essere quasi un Mont Saint-Michel fluviale della bassa padana. Se non fosse che qui le maree c’entrano poco.
E lì, sull’isola al centro del Po, la flora resiste e si aggrappa alle ultime tracce di umidità.
Ma non finisce mica qui. Sono sicuro infatti che, tra pochi mesi, torneremo qui per documentare l’ennesima piena straordinaria. E via così a colpi di eventi climatici abnormi. Perchè “Global Warming” vuol dire questo: vivere in un mondo dove la normalità è un lusso perduto.
Nei viaggi niente accade per caso
Raccontare degnamente una sera passata ad ascoltare Paolo Rumiz è come descrivere, su un risvolto di copertina, l’intensità di una vita intera: Impossibile!
Rumiz racconta i suoi viaggi, parla dei suoi libri e narra le sue esperienze con la stessa passione di un bimbo che racconta, con gli occhi luccicanti di emozione, la sua fiaba preferita. E’ un narratore che coinvolge, emoziona, seduce.
“Il filo infinito”, ovvero il libro presentato ieri sera a Sommacampagna, è un viaggio benedettino alle radici dell’Europa. Questo viaggio nasce da una coincidenza ma, come sottolinea Rumiz, “nei viaggi niente accade per caso”. L’autore, durante un viaggio sull’Appennino ferito dal sisma del 2016, si trova di fronte alla statua di San Benedetto che svetta tra i detriti del terremoto. Ma le macerie della Norcia colpita dal sisma sono, in senso metaforico, le macerie dell’ideale europeo.
Da quel “casuale” incontro con San Benedetto inizia un viaggio che cambierà l’autore. Lui, che si definisce “laico, anticlericale, mangiapreti”, viaggia nei monasteri benedettini di tutta l’Europa e ritorna profondamente mutato. La riscoperta del santo di Norcia è in realtà una riscoperta delle radici dell’ideale europeo. I monasteri benedettini, nella narrazione di Rumiz, furono il baluardo capace di convertire i barbari e gettare le basi dell’Europa. La spiritualità, l’impegno e la “Regola” dei benedettini furono capaci di “colonizzare, cristallizzare, sedentarizzare, convertire e civilizzare” i barbari venuti da lontano. Furono il pane, il vino, la musica e la spiritualità benedettine a sedurre e convertire la barbarie in civiltà. Perché ai quei tempi, come ricorda l’autore, nei monasteri la fede era una “mobilitazione sensoriale totale”.
Rumiz parla ampiamente della “Regola” benedettina che definisce, con un’interpretazione etimologica, come una “balaustra che ti impedisce di cadere nel vuoto”. E il primo elemento della Regola è la puntualità. Ce l’ho. Questa ce l’ho pure io. Anzi io ho la “anticipalità”: dico io, perché arrivare puntuali se puoi essere lì 2 ore prima? Chi è più benedettino del sottoscritto?
L’ideale europeo è quello che si caratterizza per l’accoglienza che è, come ricorda Rumiz, una caratteristica del femminile, della madre. Al contrario della “Regola” che caratterizza più la figura paterna (OK, questa mi manca, qui sono un po’ meno benedettino). D’altra parte, e questa è un’immagine semplice ma sconvolgente, il monoteismo di Cristo è quello che “toglie la spada dalla mano dell’uomo e gli impone l’ascolto, che è caratteristica tipica della madre”. E sono sempre parole dell’autore “laico, clericale, mangiapreti”.
Ma questo “ideale europeo” non nasce mai da una speranza quanto piuttosto dalla disperazione. L’ideale dell’Europa unita cresce nelle trincee della prima guerra mondiale. Si afferma dopo gli orrori del Nazismo. Benedetto da Norcia patrono d’Europa, d’altra parte, è l’esempio di quel mondo appenninico, caratterizzato da una “cultura sismica”, che è metafora dell’Europa stessa: un mondo sempre capace di rinascere dalle sue macerie.
E se oggi l’ideale europeo è in crisi è solo per mancanza di memoria, la crisi nasce dall’aver dimenticato gli orrori dei quali siamo stati capaci noi europei. Quindi, proprio perché oggi le cose vanno male, “abbiamo bisogno di un sogno Europeo”. Potrà sembrare una bella fiaba ma d’altra parte, come ricorda lo scrittore triestino, “abbiamo un tremendo bisogno di fiabe, anche noi adulti”.
L’Europa, nelle parole di Rumiz, diventa una “terra che da millenni è capolinea di popoli che, una volta arrivati lì, non hanno altra scelta se non ammazzarsi o convivere insieme”. Da sempre l’Europa accoglie chi arriva e lo trasforma in un europeo. Ma se questo meccanismo oggi è in crisi non è perché gli immigrati di oggi sono dei nuovi “barbari” ma solo perché noi europei siamo molto più deboli, e spiritualmente fragili, rispetto a quei primi “europei” dei monasteri benedettini. I problemi di oggi, come la crisi del capitalismo ed il riscaldamento globale, riguardano tutti allo stesso modo. Ma tutti siamo deboli di fronte a questi problemi, per questo è necessario restare uniti.
La narrazione di Rumiz si fa quasi Poesia quando paragona lo scemare dell’ideale europeo ad “una bella donna che se ne va e, mentre lei si allontana, tu senti un vuoto dentro”. E per concludere l’autore propone la lettura, in anteprima dal suo “Canto per Europa”, di alcuni passi come questo: “Benedetto sia chi non conosce la rotta e sa affrontare il mare nero”.
Faraway, So Close!
Forse sarà perché, venendo in qua, stavo ascoltando gli U2. Tutte le volte che penso a questo posto mi viene in mente la canzone “Faraway, So Close!”: Così lontano, così vicino.
Monte Isola è proprio questo, un micro cosmo lontano da tutto eppure al centro della mondo (o perlomeno al centro della Lombardia, senza alludere ad un’ipotetica Teoria Tolemaico-Padana).
Ma perché uno decide di andare su un’isola? Forse per cercare se stesso? Beh io ho trovato… una giornata di sole. Ed è già qualcosa. A parte gli scherzi fin da ragazzo mi ha sempre affascinato questo luogo. Ma solo oggi ho ceduto alla tentazione di attraversare col traghetto quegli 800 metri di acqua.
Arrivando qui, all’uscita dell’ultimo tunnel, sono stato sopraffatto dall’estasi causata dal panorama. L’affaccio sul lago di Peschiera Maraglio dominata, poco più in alto, dal Santuario della Ceriola. E nel mezzo del lago l’isoletta di San Paolo. Non riuscivo a staccare gli occhi dal panorama, ho smesso di ascoltare il navigatore e di seguire i segnali. Risultato: strada sbagliata e chissà quante multe avrò beccato.
Dopo lo sbarco a Peschiera Maraglio mi sono lanciato subito nella salita alla Ceriola. La pendenza, nella prima parte, spezza le gambe poi diventa più dolce. I sentieri sono spesso lastricati e, in alcuni casi, si trasformano in una cementata a prova di scooter. E infatti, per una sorta di “contrappasso lacustre”, ho rischiato di essere investito da uno Yamaha Neo’s come il mio.
Su questa isola “Scooter” è la parola chiave. Non vedevo così tanti motorini tutti insieme dai tempi di Hanoi. E comunque in Vietnam c’erano più auto, qui ovviamente nemmeno una. Proprio quello che dicevo prima “Così lontano…”.
Qui gli abitanti sono comunque dei bresciani. Ma su questo dettaglio non mi soffermo perché, relativamente alle popolazioni “trans-moreniche”, il mio giudizio è viziato da una visione Tolemaico-Mantovana. Ovviamente sto scherzando, per quelle poche cose delle quali ho avuto bisogno sono stati tutti molto gentili e disponibili.
Questa uscita comunque è stata solo una mezza improvvisata e quindi, prima o poi, voglio tornare con più calma. E comunque non sarò riuscito a carpire tutti i segreti di Monte Isola ma una cosa l’ho trovata: la Spongada. Un dolce tipico della Valcamonica che, prossimamente, voglio provare a cucinare pure io… per sentirmi un po’ Camuno.