Finalmente ci siamo, niente può andare storto adesso (e mentre lo dico mi tocco giù per scaramanzia) Anche quest’anno siamo riusciti ad organizzare la “Bi-vacanza: un viaggio, due città” (che quest’anno saranno Lisbona e Sintra).
Prima di partire ultime comunicazioni di servizio. Dico: “Chiara, ricorda di evitare due cose. La prima: so che hai l’allergia ma ti prego, evita di starnutire in aereo. Siamo 2 lombardi e qui ci sbattono giù al primo “ecciù!”. Seconda cosa da ricordare: lo so che sei brava in lingue ma evita assolutamente di parlare spagnolo. Che quelli sono portoghesi, non sono mica spagnoli di Serie B… e s’incazzano pure!”.
E allora via! partiamo accompagnati dai versi di Pessoa: Viaggiare! Perdere paesi! Essere altro costantemente, non avere radici, per l’anima, da vivere soltanto di vedere!
Neanche a me appartenere! Andare avanti, andare dietro l’assenza di avere un fine, e l’ansia di conseguirlo!
Viaggiare così è viaggio. Ma lo faccio e non ho di mio più del sogno del passaggio. Il resto è solo terra e cielo.
Eccoci qua! questa volta sembrava impossibile partire ma invece… Ancora poche ore e poi saremo a Lisbona. Ho iniziato ad organizzare questo viaggio circa un anno fa: quante idee, quanti progetti, quanti programmi… poi tutto è andato a rotoli. Ma forse è giusto così, “la vita è un viaggio sperimentale, compiuto involontariamente” diceva Pessoa. Forse non siamo noi a viaggiare nella vita ma è lei a viaggiare in noi. Cacchio! ho esagerato con la lettura di Pessoa e adesso mi escono simili affermazioni.
Una cosa è certa: il nostro viaggio sarà in compagnia di Fernando (a mio parere il più grande Poeta del XX secolo). Come tributo al grande Poeta dell’Inquietudine volevamo inventarci delle “personalità eteronime”. Ma non ho trovato il tempo per lavorarci. Però ho provato a spiegare a mia figlia il concetto di eteronimia nell’opera di Pessoa. Un giorno dico: Chiara ascolta, adesso ti spiego l’eteronimia di Pessoa. Devi immaginare un Poeta capace di “indossare” diverse personalità. Con ognuna di queste scrive in modo diverso, con sfumature diverse. Addirittura, se non ricordo male, utilizzando una diversa calligrafia. Una sola moltitudine, così è intitolata una raccolta che definisce bene il concetto di questo geniale scrittore. Poi ci penso meglio e dico: Chiara, nel corso della vita ti capiterà di incontrare parecchie persone che mostrano due, tre o anche più personalità. Ecco, quelli meglio evitarli. Fernando Pessoa aveva la “licenza poetica” per farlo, tutti gli altri sono solo dei pericolosi psicopatici dei quali è pieno il mondo.
E questo era tratto dalla rubrica “L’eteronimia di Pessoa spiegata agli adolescenti”.
Una Domenica sul Pasubio percorrendo la Strada delle 52 Gallerie. Ma io voglio ribattezzarla “la strada della Pace”. Si, perché quando arrivi lassù, dopo 800 metri di dislivello ed hai sudato anche l’anima… è proprio lì che la tua milza invoca l’armistizio. Quando arrivi lassù ti passa qualsiasi voglia di fare una guerra.
Io adoro Marco Paolini e i suoi spettacoli. Ha la capacità
di farti sorridere mettendo un pizzico di ironia anche nelle vicende più
tragiche: Ustica, il Vajont, lo sterminio dei portatori di handicap col piano
AktionT4… Per poi condurti ad una seria riflessione su quei fatti. E io voglio
provare, molto umilmente, a fare lo stesso.
Prima guerra mondiale: gli italiani decidono di realizzare una mulattiera per portare rifornimenti alle truppe sulla sommità del Pasubio. Per realizzarla scaveranno 52 gallerie in quello che diventa un capolavoro di ingegneria militare. A chi affidi l’incarico di progettare e scavare queste gallerie? Ma ovviamente al tenente Zappa. Lo giuro non me lo sono inventato, l’ironia ce l’ha messa lo Stato Maggiore. E poi quando, nel mese di Aprile, devi sostituire il tenente chi ci metti a dirigere i lavori? Ma il capitano Picone: Nomen omen. Lo giuro, è vera anche questa: sembra una storia di Topolinia. Io adoro lo Stato Maggiore italiano: erano geniali nell’affrontare la guerra con “ironia”. Come dice Paolini nello spettacolo sul Vajont: “in questa vicenda sembra che i nomi li abbia messi un greco antico”.
Ma il contesto ci impone di tornare seri. Ecco, ci sono delle circostanze nelle quali, per capire la Storia, occorrono concetti di altra origine. E per capire l’assurda e incomprensibile vicenda della prima guerra mondiale bisogna ricorrere a concetti di idraulica. Si perché la 1° Guerra Mondiale, a ben vedere, è un sifone che si è inghiottito tutto il ‘900. La Rivoluzione Russa, i fascismi, la 2° Guerra Mondiale, la Shoah, la Guerra Fredda e la divisione in blocchi, la Palestina e il Medio oriente, le guerre nei Balcani degli anni ’90… tutto il ‘900 è drammaticamente inghiottito (e originato) da quei 4 anni di inutile carneficina.
“Capire l’Europa del 1914 era indispensabile per capire quella
del 2014”. Così diceva Paolo Rumiz in un documentario sulla Grande Guerra. Ed
aveva proprio ragione: ogni cosa del mondo di oggi è uscita da quelle trincee.
Nei giorni scorsi ho rivisto il documentario di Rumiz. E balza all’occhio come quella guerra fosse un insieme di tante cose diverse. E anche qui sul Pasubio fu una cosa drammaticamente unica nella sua specie. “Una guerra immobile per topi”, così il giornalista definisce il conflitto tra queste montagne.
Io non riuscirei a spiegarla altrettanto bene. Lascio il compito alla conclusione del giornalista: “Quando la guerra finì i corpi fatti a pezzi erano così numerosi che si aspettò il 1921 per riaprire la montagna agli umani: 26 mesi c’erano voluti per sgombrarla dai corpi. Ma le ossa biancheggiarono così a lungo nei burroni che fino agli anni ’50 si lasciarono sul posto dei cestini poiché i gitanti ve le deponessero”.
Erano le ossa di un’intera generazione di giovani mandati al massacro. Era il cadavere del ‘900 inghiottito da quell’incubo di guerra.
L’esperienza che ho vissuto ieri ha i contorni sfumati di
una “favola”. E infatti tornato a casa non riuscivo a crederci. Poi mi sono
detto: forse le favole, a volte, sono proprio dietro l’angolo. E bisogna solo
avere il coraggio di cercarle.
La nostra escursione è iniziata a San Pellegrino al Cassero
(PT). Non mi dilungherò oltre ma devo solo precisare che il personaggio dal
quale prende nome il borgo era il figlio del Re di Scozia in cammino sulla Francigena.
Ho detto tutto.
Destinazione della nostra escursione: il mondo degli Elfi. Anche in questo caso sarò sintetico: quello degli Elfi è un movimento, di stampo “post sessantottino”, composto da varie comunità, sparse qui sull’Appennino pistoiese. In questi gruppi si vive in autosufficienza, a stretto contatto con la Natura. Le Comunità sono nate dall’occupazione di terre e ruderi abbandonati (ma non sempre privi di un proprietario). Che bello! Ma non è tutto oro quello che luccica. E gli Elfi non sono tutti uguali. Ci sono anche casi di “anarco-paraculati” (una sindrome abbastanza diffusa nella Sinistra, soprattutto qui in Italia). Quelli che vogliono fare gli “anarchici” con gli euro degli altri.
Noi però siamo stati ospiti di Antonio. Una persona seria,
squisita e molto gentile che proviene da Santiago de Compostela. 37 anni fa occupò
alcuni ruderi e terreni demaniali. Nel corso del tempo sono stati restaurati e
adibiti ad abitazione per lui e la famiglia. Un caso virtuoso di recupero del bosco
e di antichi edifici che altrimenti sarebbero andati in rovina. Poi, negli ultimi
20 anni, questi beni demaniali sono stati concessi in convenzione dalla Regione
Toscana. Cosa non sempre scontata visto che, qui in Italia, troppo spesso le
leggi puniscono coloro che si impegnano per l’ambiente e per il proprio
territorio.
Antonio ci ha accolti con un “pranzo a sorpresa”, però di
matrice vegetariana (come si dice, nessuno è perfetto). Andrea Piazza però,
fortunatamente, si era già concesso un “pre-lunch” con panino alla finocchiona
(Dico, cavolo vengo in Toscana apposta per la finocchiona! Mi fate mangiare
insalata?). E poi, con tutto il rispetto per i vegetariani: ma io sono un Mantovano.
Voglio dire, se il buon Dio ha creato il maiale allora dobbiamo celebrarlo in
tutte le forme possibili (e commestibili). E’ un gesto quasi “liturgico” per
noi virgiliani.
Subito dopo pranzo mi sono trovato in una situazione “surreale”.
In casa di Antonio, lui spagnolo e la compagna finlandese. Una ragazza
sudafricana ci intrattiene suonando il pianoforte. Intanto una ragazza
irlandese prepara il caffè. Il tutto mentre le galline, appollaiate sulla finestra,
si godono il concerto.
Ma vuoi vedere che il Mondo intero gira intorno all’Appennino!
Si può avere il Jet Lag appenninico? Certo che si può avere: e io sono la dimostrazione. Domenica mi sono alzato alle 4.00 per vedere l’alba alla Sambuca. Da quel giorno ogni mattina mi si spalancano gli occhi alle 3.49. Forse più che un “Jet Lag” mi sono beccato la “Maledizione dei Vergiolesi”: pare colpisca tutti i turisti che, la domenica mattina, vanno a rompere le palle ai residenti della Sambuca (che detta così mi sento come un Testimone di Geova… dunque mi sta bene questa “punizione divina” 🙂
Tornando a casa mi sono voluto proprio fermare a La Scola. Gli edifici del piccolo borgo risalgono al XIV secolo. Ma nel nome Scola è rimasta una traccia di origini molto più antiche. La parola longobarda “Sculca” rappresentava il “posto di guardia”. E in effetti proprio di qui passava il confine tra l’Esarcato e i territori longobardi.
Girando per le viuzze questo borgo ti appare come un gioiello più unico che raro. Poi pensi a quanti borghi, unici come questo, ci sono in Italia. Si ma qui è diverso, questo appennino bolognese è un “accumulatore di unicità”. Non ci credete? Posso dimostrarlo:
Dove potete trovare l’unica chiesa di Alvar Aalto in Italia? A Riola di Vergato ovviamente. Vabbè, non l’ho fotografata ma giuro che c’è. Dove potete trovare una costruzione eclettica e follemente geniale come la Rocchetta Mattei se non lungo la porrettana? Sfido chiunque a trovare una roba simile sul pianeta (e non portatemi esempi di Las Vegas che gli americani sono una categoria a sé stante che esula dal genere umano).
Non so che viso avesse (*) Selvaggia dei Vergiolesi ma,
tutte le volte che vengo qui al Castello di Sambuca, penso a lei affacciata a una
di quelle finestre. Sabato notte, per fortuna, non si è presentata al davanzale.
I motivi sono questi: 1) io non sono Cino da Pistoia 2) lei è un tantino morta
da circa 700 anni.
Una finestra. Questo luogo, visto di notte, si presenta come
una finestra sul Tempo e sull’Universo. Sopra un cielo stellato che parla dell’Infinito
e a terra i ruderi diroccati che raccontano dei secoli andati.
E tu sei lì che pensi a tutte queste menate…. mentre, davanti al cancello del cimitero (lì a pochi metri), passa una silhouette nera. A quel punto ti chiedi: ma perché diavolo ho letto tutti quei romanzi di Stephen King? E’ evidente che si tratta di un quadrupede: un piccolo cinghiale oppure un gatto nero taglia XXL. Io comunque decido di andarmene. Anche perché devo tornare domenica mattina, alle 5.00, per vedere l’alba che bacia il borgo di Sambuca.
(*) qualcuno avrà colto la citazione e, come avrà intuito, sto leggendo la quasi autobiografia di Francesco Guccini: dunque, da queste parti, un richiamo era più che doveroso.
Una domenica mattina nel borgo del Poeta. Poi il classico “shopping del turista”. Entro nel negozio e sta per esplodere la mantovanità di Andrea Piazza. Io cerco il Brodo di Giuggiole, vai con la prima degustazione: affare fatto. Poi, da buon mantovano, confettura di Zucca e Vaniglia. Passo allo scaffale dei dolci. L’occhio (imbarazzato🤭) cade sulla “Figassa” (questo io lo definirei “Marketing di Genere”🤦♂️). Con nonchalance chiedo alla negoziante: “Questa cos’è?” (senza pronunciare l’ambiguo nome. Perchè, nel secolo dal quale io provengo, esisteva ancora il pudore). Lei: “E’ una torta dura ai fichi. Un po’ come la sbrisolona”. All’udire “sbrisolona” è fatta: prendo anche “la torta che non può essere pronunciata” Le racconto che ero stato ad Arquà da bambino, in gita. La signora mi dice che era venuta in gita a Mantova, ed era stata in “quel parco con le cicogne”❤️. Eh No! Così è come “invitar un òc a bevàr”: sono sedotto. Le attacco la mia omelia sulle Bertone, le Valli del Mincio e le cicogne in Piuda. Esco dal negozio col portafogli più leggero ma sono carico di autostima virgiliana.
Mi sposto a Vo’
Euganeo. C’è poco da vedere rispetto ad Arquà, ma avevo promesso che,
per solidarietà, avrei portato qui i miei euro da turista. Quindi pranzo
in trattoria con Baccalà alla Vicentina.
Rientro a casa passando
per lo splendido borgo di Montagnana. Oggi, in teoria, dovevo essere in
Toscana ma i Colli Euganei sono stati un ottimo ripiego.
Domenica 9 febbraio, due obiettivi: qualcosa di bello da
vedere e un posto con elevata “rarefazione di genere umano”. La prima idea è per un’uscita sul Corno alle
Scale. Mi equipaggio per salire a 2.000 metri. Perché la mamma avrebbe detto
“pagnat cha ghè fred”. Poi però vedo le
foto dal meteo. C’è una misera spruzzatina di neve che mette solo tristezza.
Allora scatta il piano B) e propendo per uno dei “Borghi più belli d’Italia”:
Vigoleno.
Primo problema: al cambio di destinazione non corrisponde un
cambio di outfit. Così mi ritrovo sulle colline piacentine vestito come se
dovessi scalare un 8.000 (perché è risaputo che la cognizione non è maschia).
Il problema si risolve con un rapido “strip-tease” lungo il Sentiero dei
Briganti.
Secondo problema: arrivo qui che ho già litigato… con la
signorina che dà voce al Tom Tom. Mi ha fatto passare per il centro di Fidenza
e voleva farmi entrare in zona pedonale. Chi glielo spiega che poi i punti li
tolgono a me e non a lei?
Il resto della giornata è in “discesa”… si fa per dire.
Seguo il Sentiero dei Briganti verso Vernasca. E’ una capezzagna che attraversa
zone rurali in collina. Il sentiero è segnato anche bene. Solo che in pratica è
un balcone sul poggiolo di Vernasca, ci giri intorno e lei è sempre là, non si
avvicina mai. Ma dico io, fare un sentiero TAV del CAI che va da borgo a borgo
senza fermate intermedie?
Il borgo di Vigoleno è da vedere assolutamente. Il Sentiero
invece è da fare in giugno quando, nella sera di di Luna piena, qui organizzano
la “Notte dei Briganti”: 3 ore di camminata al chiaro di Luna. Devo
assolutamente tornare qui in giugno e darmi al brigantaggio.
Lo ammetto: sono arrivato a scoprire l’Appennino molto tardi… vabbè si può sempre recuperare.
E lo scorso week-end ho recuperato un pochino grazie alla scoperta di un piccolo scorcio dell’Appennino ligure.
“Una montagna a dimensione umana […] Tanto geografia che storia” con queste parole, in un’intervista di alcuni anni fa, il cantautore Giovanni Lindo Ferretti definiva l’Appennino.
Ed è proprio “una montagna a dimensione umana”, ma anche così tanto dimenticata dall’uomo. Una “montagna orfana” direi. Ma gli aggettivi per definire l’Appennino si potrebbero sprecare. E mi sa che un giorno, prima o poi, mi metterò a scrivere un dizionario degli aggettivi utilizzabili per raccontare queste montagne.
Quello nelle foto, per tornare a noi, è il borgo di Péntema, una frazione di Torriglia che si inerpica a 800 metri all’estrema periferia della Città Metropolitana di Genova. Un borgo dove risiedono circa 20 persone. Molto più numerose però sono le statue in creta del famoso presepe che, da ormai 25 anni, caratterizza il Natale in questo paesino di montagna. Che poi si tratta di un presepe solo di nome. Perché, nei fatti, si presenta come un vero e proprio “museo etnografico diffuso”, un museo che si sviluppa tra le vie del paese.
Sono sempre più convinto che in ogni angolo dell’Appennino ci sia un mondo da scoprire. E anche questo piccolo borgo non fa eccezione.
La scorsa estate ho passato molto tempo sull’appennino pistoiese. Ho raccontato quasi tutto. Ma qualcosa mi era sfuggito. Forse perché è stato un periodo terribile che cerco di “rimuovere” o forse chissà per quale altro motivo. Recentemente ho ritrovato gli appunti del 30 giugno… ed è un posto che vale la pena conoscere.
Raccontare la mezza giornata a Campo Tizzoro non è facile, è da tempo che cerco di trovare il modo giusto per farlo. E’ un posto strano, affascinante (di un fascino tutto particolare) e anche un pochino inquietante. A prima vista può sembrare una fabbrica a forma di paese oppure, viceversa, un paese a immagine e somiglianza della fabbrica. In realtà è un museo di “antropologia industriale” a cielo aperto.
Arrivando non possono sfuggire queste grandi ogive di
cemento, ce ne sono 8 (mi pare) in tutto. E subito pensi che siano un monumento
alla stupidità guerrafondaia del ‘900. Poi ti spiegano che sono pozzi di
accesso al labirinto sotterraneo delle gallerie anti-aeree. Un vero e proprio “paese
ipogeo” che si dirama parecchi metri sotto al paese reale.
La storia di Campo Tizzoro si sviluppa in simbiosi con quella della SMI (Società Metallurgica Italiana). Ed è la storia di un’epoca lontana, quando la fabbrica era ancora radicata in un tessuto sociale, quando l’Economia dipendeva dalla Comunità e non viceversa. Forse sto anche esagerando però mai come il documentario, oserei dire esilarante, dell’Istituto Luce che inizia la visita all’ex stabilimento. Serve una sana (e coraggiosa) curiosità antropologica per affrontare il video. E allora, forte della tua curiosità, puoi scoprire tutte le “opere assistenziali” della SMI: le scuole, gli alloggi per operai e dirigenti, gli spazi ricreativi… addirittura i luoghi di culto. Scopri che “ampi e moderni fabbricati forniscono ai lavoratori le sane gioie di un comodo focolare”. E risalendo nella gerarchia aziendale sono riservate delle “villette civettuole per i dirigenti”.
Mentre i papà sono al lavoro “piccoli alunni lindi
disciplinati e volenterosi vanno allo studio come a una festa”. E qui, a
scuola, “le bimbette, che evidentemente ricevono un ottimo esempio in casa,
promettono di diventare brave massaie” (lo giuro, dice veramente così). Ognuno
ha il suo posto nel quartiere residenziale della SMI e agli scapoli sono
riservati i posti in albergo dove possono rifocillarsi al ristorante. Ma la
voce narrante ci tiene a precisare che “nulla può eguagliare la poesia del
desco familiare dove siede la prolifica famiglia operaia”. E alla fine la
voce fuori campo aggiunge un laconico commento: “Poveri scapoli!”.
Ad un certo punto, mentre guardi il documentario, ti aspetti
che salti fuori Corrado Guzzanti che, alla guida di un manipolo di arditi, si
lancia alla conquista di Marte per “spezzare le reni” ai rossi marziani
bolscevichi. In fondo c’è qualcosa di ridicolosamente educativo in questi
documentari LUCE. E’ impossibile trattenere la risata, ma è altrettanto utile a
capire cosa siamo stati e come, nel corso di pochi decenni, può cambiare la
cultura di un popolo.
Della fabbrica di munizioni della SMI non ho molto da mostrare. Le foto sono vietate per motivi di “riservatezza” visto che è pieno di munizioni di ogni taglia. Si va dai bossoli calibro 305 per cannoni Skoda delle navi austro-ungariche fino ai pallettoni da caccia. Un piccolo angolo su un tavolino defilato è dedicato al caso JFK: già perché i bossoli trovati a Dallas avevano il marchio “SMI Campo Tizzoro” e, per questo motivo, la fabbrica fu sottoposta all’inchiesta del governo americano.
Ma la cosa più interessante, sebbene un po’ angosciante,
sono le gallerie sotterranee. Alcuni chilometri di tunnel, tra i 20 e 30 metri
di profondità, costruiti, a partire dal 1937, per difendere tutti gli abitanti
dai possibili attacchi aerei. In una calda giornata d’estate si apprezza il
refrigerio di questi ambienti: non più di 10 gradi. Però camminando per questi
lunghissimi corridoi non si può evitare di percepire l’angoscia della quale
sembrano trasudare queste pareti. E ti puoi solo vagamente immaginare la
sensazione che, durante un’evacuazione, si doveva provare qui dentro. Tutti
stipati come animali ma rassicurati dal fatto che “la disciplina è la miglior
garanzia di salvezza”. E la disciplina la ritrovi nelle ferree indicazioni come
quella che ci ricorda che “è assolutamente vietato sputare”. Cose di altri
tempi, ma non così lontani.